Ma a voi, come é capitato d'iniziare?
Inviato: lunedì 3 giugno 2024, 4:38
A volte mi è capitato di leggere dei commenti su come sia iniziata la passione per le stilografiche. Ho pensato al mio caso e ho realizzato che per me non è mai “iniziata“: è sempre stata lì. Ho usato una penna stilografica quasi da quando ho memoria, di certo dagli ultimi anni delle scuole elementari, quando con sollievo sostituii la cannuccia con il pennino da intingere nel calamaio di vetro, senza tappo, che era riempito ogni mattina e riposava in un foro praticato in un angolo del banco. Quando la prima penna con cartuccia mandò in pensione la cannuccia sembrò in effetti una buona cosa. La stilografica scolastica non era però qualcosa per la quale appassionarsi. All’epoca esisteva solamente nei colori rosso, blu carta da zucchero e nera. Forse anche beige. Si chiamava Auretta e la produceva Aurora in quel di Torino. La mia preferita era la nera, ma all’epoca i bambini non sceglievano le cose: prendevano quello che avevano scelto mamma e papà. Io ebbi la Auretta rossa e blu, quest’ultima quella che mi piaceva meno. Ma la stilografica per la scuola non era nulla di “fancy“. Faceva il suo mestiere, che era scrivere, e macchiava fogli, mani e vestiti molto meno di quanto lo facessero la cannuccia e l’inchiostro sciolto.
Non ho mai smesso di usare la stilografica, ma la prima volta che me ne sono preoccupato esteticamente, come di un oggetto che in qualche modo contribuiva ad esprimere il carattere del suo proprietario, avevo 17 anni. Con i risparmi comprai una Waterman Watermina. Il nome lo appresi quarant’anni più tardi. All’epoca sapevo solo che mi faceva sentire come Musil o Thomas Mann, e un poco anche come Sherlock Holmes. Aveva una lacca color tartaruga e parti in plastica nera, con le metallerie dorate. La rubarono della mia borsa incustodita, nella mensa universitaria, mentre cercavo di ottenere una seconda razione gratuita di patate fritte, molli e fredde. Il connubio “un uomo e la sua penna“ era però irrevocabilmente inaugurato.
Passai brevemente ad una Aurora Hastil, ma quella forma perfettamente moderna era molto lontana dal mio “io“ di allora. La cedetti presto a un compagno di studi, perché mi era chiaro che non si trattava della penna per “questo” uomo.
Dovendo diventare scrittore o filosofo o letterato incompreso o finanche professore dell’università, si richiedeva un connubio essenziale, un’affinità elettiva della penna con la mano e con l’anima e col modo di essere e la visione del mondo e la rappresentazione del sé. Quella vera, che fu la “mia” penna e continua ad esserlo, era lì dietro l’angolo, nella vetrina di un negozio di belle arti in Campo della Carità, a due passi dalle Gallerie della Accademia a Venezia: una splendida Montblanc Meisterstück 149. La penna aveva pennino extra-fine, e mi assicurarono che si trattava di uno strumento perfetto non solamente per scrivere, ma anche per disegnare. Per portarla sempre con me, le costruii una piccola scatoletta in legno, foderata con carta di Varese bianca e verde, e l’interno ricoperto di un vellutino dello stesso colore. Era una scatoletta commoventemente ridicola, molto vicina al “me” di quei tempi. La penna è stata con me sin da allora, ha girato insieme a me mezzo mondo, ha scritto ovunque, di tutto, su quaderni e fogli sparsi e tovaglioli di carta, e bevuto e rigurgitato cento inchiostri differenti.
Comprai un’altra Montblanc una ventina di anni più tardi, ancora una Meisterstück 149, con pennino doppio largo, per provare il brivido della variazione nella scrittura, una cosa della quale non mi ero mai interessato prima. Due penne, uguali in tutto tranne che nel pennino, sarebbero probabilmente state sufficienti per continuare a scrivere e basta, largo o stretto secondo gli umori, secondo i temi, secondo la carta. Abbastanza perché le penne restassero per me, come erano state, oggetti per scrivere ed esprimersi e per dare un’espressione, un segnale, dell’essere individuale del loro proprietario. La colpa per convertire questa visione semplice e funzionale in una piccola mania, in tic nervoso della volontà e in un interminabile cammino non più verso la “propria” penna, ma verso lo strumento perfetto, perfettamente funzionale e perfettamente bello, l’ebbe una circostanza fortuita, con un esito rocambolesco.
In Costa Rica non ci sono penne stilografiche Montblanc. Beh, l’affermazione non è del tutto vera, perché in uno dei maggiori centri commerciali della capitale c’è un negozio che vende Montblanc, e lì si trovano anche alcune stilografiche. Ma per il Costaricano medio la penna stilografica non esiste e una penna costosa è del tutto inimmaginabile. In un negozio di cartoleria non lontano da casa, in una vetrinetta di penne sconosciute e a buon mercato, c’è una penna roller Parker Duofold MKIII. La vedo lì almeno da una quindicina d’anni, forse di più. È l’unica penna esteticamente bella che io abbia visto in un negozio in Costa Rica, ad eccezione del punto vendita di Montblanc. Ma non riusciranno mai a venderla, e certamente non all’equivalente degli oltre 300 dollari che richiedono per la penna. Ogni volta che vado alla cartoleria Universal passo “a visitarla”. Mi soffermo un poco davanti alla vetrinetta, che negli anni è cambiata una decina di volte, e ogni volta mi sforzo per sbirciare il prezzo della bella penna nera con gli anellini dorati, stampato su una etichetta di carta legata alla clip con un filo sottile di cotone bianco. Con gli anni il prezzo non è diminuito. Ogni tanto cambia e si aggiorna. Immagino che gli impiegati della Universal debbano ormai avere in odio la pennetta. Dal tanto toglierle la polvere non stupirebbe che ne avessero consumato un poco le parti più morbide. Se il prezzo non fosse così visibilmente assurdo, l’avrei forse comprata da tempo, per mettere fine alla sua esistenza senza amore, alla sua esibizione infruttuosa che dura da epoche divenute ormai immemorabili.
Cercare una penna Montblanc in Costa Rica in una rubrica di annunci ha talmente poche probabilità di successo da risultare una piccola prova insensata, ma alla ricerca di una penna Bohème per la propria moglie, non si comanda al cuore. Cerco “Montblanc“ e ne esce un solo risultato: “Pluma estilografica Boheme“, con la fotografia di un modello retrattile con pietrina sintetica nera sulla clip. Non è una fotografia vera, è certamente presa da un catalogo di vendita online. L’annuncio non ha data, ma c’è un numero di telefono. Chiamo, senza molta fiducia. Mi risponde la voce di un giovane. Gli spiego che è per la penna. Mi dice che l’ha ancora e, siccome glielo chiedo, mi racconta di averla ricevuta come compenso per un lavoro, ma di non sapere che farne. Non sa un prezzo, ma se voglio incontrarlo per vedere la penna, nel frattempo penserà a una offerta. Io sono pigrissimo e detesto muovermi nel traffico. Ma vivendo, allora, in un miserabile paesino sgangherato ironicamente chiamato “Paraíso“, tutto è lontano da raggiungere. Chiedo, senza molta convinzione dove si trova il giovane, per valutare se potrò vincere la pigrizia e organizzare un incontro. Mi risponde che vive a Paraíso… ci vediamo nel pomeriggio, dopo il lavoro in ufficio. Dove?
Paradiso è un ossimoro. È un paradiso infernale, immemore di ogni bellezza, né antico né recente, basso e sgangherato, pieno di lamiere e pieno di buche. Scelgo, per l’appuntamento, una sorta di pasticceria-bar-panetteria con caffè, ugualmente orrenda, ma almeno tavoli e sedie sono di legno invece che di plastica. Arrivo a Trigo Miel con qualche minuto di ritardo e dentro c’è solamente un ragazzo seduto a un tavolo, di spalle all’entrata. Mi avvicino e gli chiedo: “Sei quello della penna?“. Ci sediamo uno di fronte all’altro, io ordino un caffè e lui non vuole nulla. Da una borsa di tela estrae un involto, come un fazzoletto arrotolato, lo appoggia sul tavolino e aspetta mentre io bevo il mio caffè. “Fammi vedere”, gli dico. Lui srotola l’involto e ne compare una penna Bohème, nera con le finiture platinate. Per mia immediata delusione vedo che non ha la pietra e che è molto più grande di quelle che ho visto sinora. A Elvira non piacerà. Gli dico, un po’ scocciato, che non è la penna della fotografia, e lui mi risponde, innocente, che gli era sembrata uguale. Dal mio tono ha già capito che non concluderemo l’affare. Per consolarlo, gli dico: “Era per mia moglie. Mi sarebbe servita quella della fotografia. Questa è molto grande“. “È quella che mi hanno dato“, dice, e io capisco che il mio interesse è terminato e non vedo che cosa dovrebbe importarmi di quello “che gli hanno dato”. Abbiamo perso tempo, entrambi, ma lui per colpa sua. Per non essere ineducato, mentre mi alzo dal tavolino, gli chiedo: “Ha comunque pensato a un prezzo per la penna?“. “Avevo pensato 200 dollari“. Lo dice come scusandosi. “È nuova?“- gli chiedo. Mi risponde che pensa di sì. “Non le hanno dato una scatola?“. “No“. “Allora dubito che sia nuova“, gli dico.“Ma grazie comunque per venire“, aggiungo. “Grazie a lei“. “È un ragazzo educato“, penso mentre esco da Trigo Miel, “anche se non sa nulla di penne stilografiche“. Nella mia mente cerco di immaginare la situazione assurda di un suo “cliente“ che gli propone di pagargli un lavoro - quale lavoro sarà? - con una stilografica Montblanc usata. In Costa Rica. Mah…
Fuori era già buio e le macchine formavano una fila lenta sulla via principale di Paraíso, suonando i clacson nel disordine delle botteghe povere che si affacciano sulla via, accalcate di gente. Ritornai a casa a lavorare ancora un po’ prima di cena.
Era quasi la stessa ora l’indomani quando suonò il mio telefono. Sullo schermo appariva un numero che non riconoscevo, ma non mi fu difficile identificare la voce del giovane della penna. “Non credevo che fossimo rimasti d’accordo perché io le comunicassi una decisione“- gli dissi, per anticipare il suo argomento. “No - mi disse-, chiamavo solo per dirle che se in qualche modo le interessasse la penna, potrei lasciargliela per 100 dollari”. Fece una pausa. “Lei è l’unico che mi abbia chiamato“. “Va bene“, gli dissi. “Ritirerò i dollari e possiamo vederci domani, allo stesso posto“. Non so perché gli dissi di sì e comunque fino a domani ci sarebbe stato tempo per pensarci. “Trigo Miel è aperto fino a tardi”, disse lui, “se potesse mi piacerebbe che ci vedessimo oggi stesso per concludere“. “La richiamo se posso ritirare i dollari“, gli dissi. A volte il destino ha fretta per accadere.
Con tre penne stilografiche, una delle quali superflua, però contento, il mio fato di raccoglitore di penne era segnato. Dico raccoglitore, anziché collezionista, perché mi sembra che quest’ultimo termine implichi una qualche direzione verso la quale procedere, un disegno minimamente coerente, un progetto in alcun modo completabile, che mancano al mio raccogliere. La terza, la Bohème, appresi poi non solo che l’ottenni a un prezzo ridicolo, ma anche che in quella versione “Big Size“ era una penna piuttosto rara e ricercata. I termini che sto usando qui sono già, inguaribilmente, da raccoglitore. Il fatto é che, scesi cautamente il primo e il secondo gradino, e il terzo un po’ fortuitamente, gli altri scalini risultano straordinariamente scivolosi, e la scala dorata che conduce alla mania si spalanca in tutto il suo splendore irresistibile.
La mia “avventura stilografica“ è iniziata davvero, a voler darle una data e un motivo che forse non ha avuto, con una Meisterstück 149. È stata la “mia“ prima penna e in larga misura, dopo quarantacinque anni, continua ad essere la mia prediletta. Ho penne più costose, fatte con materiali più nobili, e anche più belle da vedersi, ma nessuna altrettanto perfettamente funzionale e perfettamente riconoscibile quanto una Meisterstück 149. Sono un paio di Meisterstück quelle che vivono perennemente inchiostrate sulla mia scrivania nei loro stilofori dedicati della stessa linea di Montblanc. Il piccolo romanzo della grande Bohème é stato solo la scusa per far esplodere il delirio frenetico e bramoso che chiamiamo la nostra passione.
E voi, come vi siete ritrovati a incominciare?
Non ho mai smesso di usare la stilografica, ma la prima volta che me ne sono preoccupato esteticamente, come di un oggetto che in qualche modo contribuiva ad esprimere il carattere del suo proprietario, avevo 17 anni. Con i risparmi comprai una Waterman Watermina. Il nome lo appresi quarant’anni più tardi. All’epoca sapevo solo che mi faceva sentire come Musil o Thomas Mann, e un poco anche come Sherlock Holmes. Aveva una lacca color tartaruga e parti in plastica nera, con le metallerie dorate. La rubarono della mia borsa incustodita, nella mensa universitaria, mentre cercavo di ottenere una seconda razione gratuita di patate fritte, molli e fredde. Il connubio “un uomo e la sua penna“ era però irrevocabilmente inaugurato.
Passai brevemente ad una Aurora Hastil, ma quella forma perfettamente moderna era molto lontana dal mio “io“ di allora. La cedetti presto a un compagno di studi, perché mi era chiaro che non si trattava della penna per “questo” uomo.
Dovendo diventare scrittore o filosofo o letterato incompreso o finanche professore dell’università, si richiedeva un connubio essenziale, un’affinità elettiva della penna con la mano e con l’anima e col modo di essere e la visione del mondo e la rappresentazione del sé. Quella vera, che fu la “mia” penna e continua ad esserlo, era lì dietro l’angolo, nella vetrina di un negozio di belle arti in Campo della Carità, a due passi dalle Gallerie della Accademia a Venezia: una splendida Montblanc Meisterstück 149. La penna aveva pennino extra-fine, e mi assicurarono che si trattava di uno strumento perfetto non solamente per scrivere, ma anche per disegnare. Per portarla sempre con me, le costruii una piccola scatoletta in legno, foderata con carta di Varese bianca e verde, e l’interno ricoperto di un vellutino dello stesso colore. Era una scatoletta commoventemente ridicola, molto vicina al “me” di quei tempi. La penna è stata con me sin da allora, ha girato insieme a me mezzo mondo, ha scritto ovunque, di tutto, su quaderni e fogli sparsi e tovaglioli di carta, e bevuto e rigurgitato cento inchiostri differenti.
Comprai un’altra Montblanc una ventina di anni più tardi, ancora una Meisterstück 149, con pennino doppio largo, per provare il brivido della variazione nella scrittura, una cosa della quale non mi ero mai interessato prima. Due penne, uguali in tutto tranne che nel pennino, sarebbero probabilmente state sufficienti per continuare a scrivere e basta, largo o stretto secondo gli umori, secondo i temi, secondo la carta. Abbastanza perché le penne restassero per me, come erano state, oggetti per scrivere ed esprimersi e per dare un’espressione, un segnale, dell’essere individuale del loro proprietario. La colpa per convertire questa visione semplice e funzionale in una piccola mania, in tic nervoso della volontà e in un interminabile cammino non più verso la “propria” penna, ma verso lo strumento perfetto, perfettamente funzionale e perfettamente bello, l’ebbe una circostanza fortuita, con un esito rocambolesco.
In Costa Rica non ci sono penne stilografiche Montblanc. Beh, l’affermazione non è del tutto vera, perché in uno dei maggiori centri commerciali della capitale c’è un negozio che vende Montblanc, e lì si trovano anche alcune stilografiche. Ma per il Costaricano medio la penna stilografica non esiste e una penna costosa è del tutto inimmaginabile. In un negozio di cartoleria non lontano da casa, in una vetrinetta di penne sconosciute e a buon mercato, c’è una penna roller Parker Duofold MKIII. La vedo lì almeno da una quindicina d’anni, forse di più. È l’unica penna esteticamente bella che io abbia visto in un negozio in Costa Rica, ad eccezione del punto vendita di Montblanc. Ma non riusciranno mai a venderla, e certamente non all’equivalente degli oltre 300 dollari che richiedono per la penna. Ogni volta che vado alla cartoleria Universal passo “a visitarla”. Mi soffermo un poco davanti alla vetrinetta, che negli anni è cambiata una decina di volte, e ogni volta mi sforzo per sbirciare il prezzo della bella penna nera con gli anellini dorati, stampato su una etichetta di carta legata alla clip con un filo sottile di cotone bianco. Con gli anni il prezzo non è diminuito. Ogni tanto cambia e si aggiorna. Immagino che gli impiegati della Universal debbano ormai avere in odio la pennetta. Dal tanto toglierle la polvere non stupirebbe che ne avessero consumato un poco le parti più morbide. Se il prezzo non fosse così visibilmente assurdo, l’avrei forse comprata da tempo, per mettere fine alla sua esistenza senza amore, alla sua esibizione infruttuosa che dura da epoche divenute ormai immemorabili.
Cercare una penna Montblanc in Costa Rica in una rubrica di annunci ha talmente poche probabilità di successo da risultare una piccola prova insensata, ma alla ricerca di una penna Bohème per la propria moglie, non si comanda al cuore. Cerco “Montblanc“ e ne esce un solo risultato: “Pluma estilografica Boheme“, con la fotografia di un modello retrattile con pietrina sintetica nera sulla clip. Non è una fotografia vera, è certamente presa da un catalogo di vendita online. L’annuncio non ha data, ma c’è un numero di telefono. Chiamo, senza molta fiducia. Mi risponde la voce di un giovane. Gli spiego che è per la penna. Mi dice che l’ha ancora e, siccome glielo chiedo, mi racconta di averla ricevuta come compenso per un lavoro, ma di non sapere che farne. Non sa un prezzo, ma se voglio incontrarlo per vedere la penna, nel frattempo penserà a una offerta. Io sono pigrissimo e detesto muovermi nel traffico. Ma vivendo, allora, in un miserabile paesino sgangherato ironicamente chiamato “Paraíso“, tutto è lontano da raggiungere. Chiedo, senza molta convinzione dove si trova il giovane, per valutare se potrò vincere la pigrizia e organizzare un incontro. Mi risponde che vive a Paraíso… ci vediamo nel pomeriggio, dopo il lavoro in ufficio. Dove?
Paradiso è un ossimoro. È un paradiso infernale, immemore di ogni bellezza, né antico né recente, basso e sgangherato, pieno di lamiere e pieno di buche. Scelgo, per l’appuntamento, una sorta di pasticceria-bar-panetteria con caffè, ugualmente orrenda, ma almeno tavoli e sedie sono di legno invece che di plastica. Arrivo a Trigo Miel con qualche minuto di ritardo e dentro c’è solamente un ragazzo seduto a un tavolo, di spalle all’entrata. Mi avvicino e gli chiedo: “Sei quello della penna?“. Ci sediamo uno di fronte all’altro, io ordino un caffè e lui non vuole nulla. Da una borsa di tela estrae un involto, come un fazzoletto arrotolato, lo appoggia sul tavolino e aspetta mentre io bevo il mio caffè. “Fammi vedere”, gli dico. Lui srotola l’involto e ne compare una penna Bohème, nera con le finiture platinate. Per mia immediata delusione vedo che non ha la pietra e che è molto più grande di quelle che ho visto sinora. A Elvira non piacerà. Gli dico, un po’ scocciato, che non è la penna della fotografia, e lui mi risponde, innocente, che gli era sembrata uguale. Dal mio tono ha già capito che non concluderemo l’affare. Per consolarlo, gli dico: “Era per mia moglie. Mi sarebbe servita quella della fotografia. Questa è molto grande“. “È quella che mi hanno dato“, dice, e io capisco che il mio interesse è terminato e non vedo che cosa dovrebbe importarmi di quello “che gli hanno dato”. Abbiamo perso tempo, entrambi, ma lui per colpa sua. Per non essere ineducato, mentre mi alzo dal tavolino, gli chiedo: “Ha comunque pensato a un prezzo per la penna?“. “Avevo pensato 200 dollari“. Lo dice come scusandosi. “È nuova?“- gli chiedo. Mi risponde che pensa di sì. “Non le hanno dato una scatola?“. “No“. “Allora dubito che sia nuova“, gli dico.“Ma grazie comunque per venire“, aggiungo. “Grazie a lei“. “È un ragazzo educato“, penso mentre esco da Trigo Miel, “anche se non sa nulla di penne stilografiche“. Nella mia mente cerco di immaginare la situazione assurda di un suo “cliente“ che gli propone di pagargli un lavoro - quale lavoro sarà? - con una stilografica Montblanc usata. In Costa Rica. Mah…
Fuori era già buio e le macchine formavano una fila lenta sulla via principale di Paraíso, suonando i clacson nel disordine delle botteghe povere che si affacciano sulla via, accalcate di gente. Ritornai a casa a lavorare ancora un po’ prima di cena.
Era quasi la stessa ora l’indomani quando suonò il mio telefono. Sullo schermo appariva un numero che non riconoscevo, ma non mi fu difficile identificare la voce del giovane della penna. “Non credevo che fossimo rimasti d’accordo perché io le comunicassi una decisione“- gli dissi, per anticipare il suo argomento. “No - mi disse-, chiamavo solo per dirle che se in qualche modo le interessasse la penna, potrei lasciargliela per 100 dollari”. Fece una pausa. “Lei è l’unico che mi abbia chiamato“. “Va bene“, gli dissi. “Ritirerò i dollari e possiamo vederci domani, allo stesso posto“. Non so perché gli dissi di sì e comunque fino a domani ci sarebbe stato tempo per pensarci. “Trigo Miel è aperto fino a tardi”, disse lui, “se potesse mi piacerebbe che ci vedessimo oggi stesso per concludere“. “La richiamo se posso ritirare i dollari“, gli dissi. A volte il destino ha fretta per accadere.
Con tre penne stilografiche, una delle quali superflua, però contento, il mio fato di raccoglitore di penne era segnato. Dico raccoglitore, anziché collezionista, perché mi sembra che quest’ultimo termine implichi una qualche direzione verso la quale procedere, un disegno minimamente coerente, un progetto in alcun modo completabile, che mancano al mio raccogliere. La terza, la Bohème, appresi poi non solo che l’ottenni a un prezzo ridicolo, ma anche che in quella versione “Big Size“ era una penna piuttosto rara e ricercata. I termini che sto usando qui sono già, inguaribilmente, da raccoglitore. Il fatto é che, scesi cautamente il primo e il secondo gradino, e il terzo un po’ fortuitamente, gli altri scalini risultano straordinariamente scivolosi, e la scala dorata che conduce alla mania si spalanca in tutto il suo splendore irresistibile.
La mia “avventura stilografica“ è iniziata davvero, a voler darle una data e un motivo che forse non ha avuto, con una Meisterstück 149. È stata la “mia“ prima penna e in larga misura, dopo quarantacinque anni, continua ad essere la mia prediletta. Ho penne più costose, fatte con materiali più nobili, e anche più belle da vedersi, ma nessuna altrettanto perfettamente funzionale e perfettamente riconoscibile quanto una Meisterstück 149. Sono un paio di Meisterstück quelle che vivono perennemente inchiostrate sulla mia scrivania nei loro stilofori dedicati della stessa linea di Montblanc. Il piccolo romanzo della grande Bohème é stato solo la scusa per far esplodere il delirio frenetico e bramoso che chiamiamo la nostra passione.
E voi, come vi siete ritrovati a incominciare?