Esme ha scritto: ↑domenica 21 settembre 2025, 20:22
Visto che pian piano ci siamo addentrati in meandri culturali (ma del resto la riflessione proposta da Maylota era culturale), e in particolare sul Giappone, vi lascio un link su una riflessione che mi aveva colpito:
https://makikohastings.blogspot.com/201 ... n.html?m=1
Finalmente sono riuscito a ritagliarmi un po' di tempo per leggermi con calma questo articolo e rifletteci su, e da nipponista avrei un paio di considerazioni:
1) Quello che vediamo oggi è in gran parte il frutto di una deliberata scelta del governo giapponese che circa dagli anni Novanta ha adottato delle politiche di protezione (ad oggi il Giappone è uno dei Paesi più severi in materia di copyright) e promozione del patrimonio intellettuale soprattutto all'estero, ad esempio esportando l'immagine del "cool Japan". Il fenomeno dei capi di abbigliamento con scritte senza senso in giapponese o il fatto che ci si richiami a concetti culturali giapponesi per i propri prodotti (il caso del "wabi sabi" di cui parla l'autrice) deriva dall'immagine esotizzante del Giappone che è stata proposta in parte dagli stessi giapponesi per favorire le esportazioni e il turismo. E ci sono riusciti alla grande, ma con forti efffetti collaterali. Ovviamente questo non trova tutti d'accordo, soprattutto, credo, i giapponesi che si trovano all'estero come l'autrice dell'articolo. Posso solo immaginare quanto possa essere pesante e frustrante essere trattato come un Pokemon appena si dice la propria provenienza (l'autrice non scende nei dettagli ma dice esplicitamente di essere stata oggetto di razzismo).
2) Molto dipende dalla sensibilità personale. Alcuni possono considerare un vantaggio l'essere considerati "speciali" per la propria provenienza, dipende anche da che parte si sta. Voglio dire, un commerciante che esporta i propri prodotti cercherà di far leva sulla tradizione del proprio Paese anche se in modo superficiale per toccare le corde dello straniero che vuole l'oggetto esotico, è questo fino a un certo punto è condivisibile; un po' diverso è quando si prende la tradizione di un altro Paese e la si violenta per essere più attraenti sul mercato. Dipende anche dal grado della cosa: fare una maglietta con scritto "Tokyo" in kanji è un po' stupido ma non troppo forte come cosa, da italiano non mi straccio le vesti se vedo un turista con la maglietta con su scritto "Rome" o "Roma", andare a toccare arti e tradizioni come forma di marketing già è più scorretto secondo me. Purtroppo abbiamo un esempio lampante e recente di questo secondo tipo di appropriazione culturale da parte dei nostri connazionali: la Leonardo MZ Kintsugi. Ora, dato che è una edizione limitata fatta per uno specifico negozio, non so di chi sia stata l'idea, se del negozio o di Leonardo, però mi ha infastidito non poco tutta la supercazzola sul kintsugi su una penna in resina trasparente con venature dorate. Questo vuol dire usare il riferimento a una tradizione artigianale secolare per ammantare il proprio prodotto di maggiore fascino, e farlo nel modo più becero e, devo dirlo a questo punto, cafone possibile. Secondo me Leonardo su questa cosa è andato troppo oltre, forse per assecondare l'idea del negozio, ma io da giapponese mi sentirei molto offeso. Mi dispiace soprattutto che questa cafonata venga da una azienda che si è distinta per la qualità dei suoi prodotti.
P.S. esiste anche ovviamente una esotizzazione al rovescio, come quella che fanno i giapponesi dando nomi in inglese ai propri prodotti e brand, e in generale usando l'inglese o altre lingue europee un po' a sproposito. Nessuno è esente da questo, l'importante è esserne consapevoli e cercare di non scadere in razzismo o nello sfruttamento commerciale della cultura altrui.