Waterman’s No.7 “Emerald Ray” Blue nib, 1935
viewtopic.php?t=31049 ho riconosciuto in rete lo stiloforo ad essa dedicato, che avevo così pesantemente criticato nel corso della mia recensione… «Era stato anche sviluppato un calice apposito (molto raro oggi sul mercato), riconoscibile per la decorazione a banda larga, per alloggiare la penna senza un codale avvitabile ma con il cappuccio calzato (!): l’effetto è, a mio avviso, a dir poco dissacrante, poiché rinnega le conquiste di eleganza ed ergonomia raggiunte dalla decennale (all’epoca) evoluzione dello stiloforo. Non ho notizia, invece, di un calice per stiloforo dedicato anche alla Emerald Ray. La discutibilissima soluzione (reinterpretata ai giorni nostri dalla MB 149) non venne applicata ad altre penne della Casa americana… E per fortuna!, io dico, visto l’effetto a dir poco “cheap” della filettatura del fusto che spunta sopra il bordo del calice…».
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Non era propriamente un affare di volpi e grappoli d’uva: infatti, non ho cambiato opinione sulla questione di principio. E tuttavia, con lo strumento completo finalmente a disposizione tra le mani, mi sono fatto un’idea più precisa delle ragioni che avevano portato alla messa in produzione di questo progetto stilisitico, e di quelle che avrebbero condotto al suo repentino abbandono.
Waterman’s No.7 dedicated Desk Set (#501)
Per una introduzione al mondo degli stilofori e alla terminologia impiegata per descriverli, si consulti il capitolo introduttivo della mia recensione al seguente indirizzo: viewtopic.php?t=31664
La motivazione principale di una soluzione di questo tipo, così inusuale ed estranea alla tradizione (non solo a quella all’epoca meno che decennale delle penne da stiloforo, ma soprattutto a quella allora già più che secolare delle cannucce con pennini da intinzione in metallo) può essere stata quella di fornire (rapidamente) un ecosistema del tutto completo ad una penna top di gamma che al momento della sua immissione sul mercato poteva vantare importanti caratteristiche di innovazione: presentata nel 1933 come una (vice)ammiraglia, elegantissima quanto sobria nel design (del sommo Gabriel Larsen), disponibile solo in nero con finiture metalliche in lamina d’oro, la <Number Seven> era infatti dotata di un “codice dei colori” esplicito (https://www.fountainpen.it/Waterman_Nib_Color_Code) per la scelta e il riconoscimento dei diversi pennini (grazie alla presenza di un dischetto colorato inserito nel fondello cieco e l’iscrizione del “nome del colore” impressa sul pennino), ed era equipaggiata con il rivoluzionario sistema “Tip-Fill” (https://www.fountainpen.it/Tip-Fill) che consentiva l’immersione della sola punta del pennino nell’inchiostro, per un caricamento realmente “pulito”.
La penna con il cappuccio calzato tentava di uniformarsi alla “tradizione” quanto a lunghezza, raggiungendo la più che ragguardevole misura di 16,7 cm, ma non poteva certo insidiare il record delle “penne da tavolo” che veleggiavano intorno ai 20 cm, essendo connotate da estremità volutamente allungate, una delle quali era riconoscibilissima nella sua terminazione affusolata (taper= coda o codale).
Il pubblico interessato all’articolo riconosceva come penne da stiloforo (desk pen) solo quelle munite di codale (poiché garantivano, secondo l’opinione corrente del tempo, una superiore ergonomia per le lunghe sessioni di scrittura), e pur in una nazione non certo ancora ristabilitasi dopo il crollo della Borsa di quattro anni prima, chi nel 1933 poteva permettersi i $10 per lo stiloforo completo di stilografica (di alta gamma) non mostrò di sentire il bisogno di una “finta conversione” di una penna da tasca (pocket pen): fu così che si vendettero ben pochi “calici dedicati” solo alla <No.7>. E ciò è testimoniato indirettamente dalla pressoché inesistente documentazione disponibile riguardo a questo stiloforo sui libri o in rete (pubblicità, recensioni e immagini): si spiega allora perché meno di due anni dopo il lancio avvenuto a metà del 1933, Waterman non perdette tempo a pubblicizzare questa opzione anche per la nuovissima No.7 in livrea “Emerald Ray” (autunno del 1935), che però, il mio caso ne è la prova, si adatta comunque perfettamente al calice originale.
Dal punto di vista squisitamente cromatico, certamente il marmo nero e oro della base, il calice di ebanite nero con fascione dorato e la penna nera e oro del 1933 costituivano un tutto rigorosamente “coerente”; il calice virato al marron da me ritrovato (io non sono un anneritore seriale
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Ma i grandi Produttori si guardavano, per non dire si spiavano tra loro: e così, l’anno dopo il lancio di questa soluzione da parte di Waterman (1934), fu Parker ad ispirarsi al concorrente, predisponendo la medesima discutibile soluzione per la sua unica linea di penne con caricamento a levetta (che intercettavano sempre una porzione di mercato tradizionalista che evidentemente faceva gola a tutti i Produttori) con le sue Parkette, semplici e “De Luxe”. L’anno dopo ancora, 1935, ricordo una soluzione analoga proposta da Chilton (anch’essa molto rara, di cui sono in possesso e che recensirò)… per arrivare più di mezzo secolo dopo al ben più noto stiloforo per la Montblanc 149, che però nemmeno più richiede di calzare il cappuccio (anche se non lo escluderei, non avendo ancora potuto consultare i cataloghi degli anni Novanta
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Le misure Il calice in ebanite
Lunghezza (esclusa filettatura): 5,5 cm
Ø esterno (al labbro):1,6 cm
Peso: 4 g
La base in marmo
Lato corto: 5,7 cm (2 ¼ inches)
Lato lungo: 10,1 cm (4 in)
Altezza: 2,2 cm (7/8 in)
Peso (con calice avvitato): 386 g
Il calice
Come era prassi che ciascun Produttore denominasse la “celluloide” a modo suo (permanite, radite, coralite, pyroxylin…), così era consuetudine anche per i “calici” degli stilofori: nel caso specifico di Waterman’s, fu scelto il nome commerciale di sheath= anticamente “fodero”, poi genericamente “copertura simile ad un tubo”, ma anche “guaina aderente”. “Sheath” rimase valido per tutti i modelli di calici Waterman’s adottati uno di seguito all’altro (io ne ho contati almeno di 6 fogge diverse, in metallo ed ebanite, nella “golden age” fino alla WWII, più un settimo in celluloide tipico della Concessionaria francese), e in seguito resi disponibili anche contemporaneamente sul mercato.
Qui sotto un’immagine del <calice No.7> accanto al più conosciuto degli “sheath” Waterman, quello in metallo dorato (ma anche cromato o brunito). Inutile dire che <il calice No.7> (per nulla documentato in rete a quanto ne so) in sé è davvero raro sul mercato: una delle ragioni, la principale forse, è senz’altro quella che “in the wild” dalla stragrande maggioranza dei collezionisti non verrebbe nemmeno riconosciuto come Waterman’s originale…
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L’idea, come abbiamo visto, prevedeva in buona sostanza di inserire sic et simpliciter la penna con il cappuccio calzato in… un altro cappuccio.
Per facilitare l’inserimento con l’ausilio di una mano sola tipico degli stilofori, il labbro del calice si presenta ben pronunciato e con un ampio invito concavo.
Questo secondo cappuccio, modellato in ebanite, richiama molto da vicino il cappuccio della <No.7> di cui riproduce due caratteristiche salienti affatto peculiari:
• la sommità “scalettata” sulla testina e
• la grande fascia decorativa in prossimità del labbro.
Continua…